
La mia storia
Il trattamento dei tumori ossei della colonna vertebrale
L’impegno e la passione di tutta la mia vita professionale in continuo divenire.
Scegliere con competenza e responsabilità il primo trattamento è ciò che condiziona la prognosi. In tutti questi anni ho capito e cercato di trasmettere un semplice concetto: i tumori ossei della colonna vertebrale devono essere curati seguendo gli stessi criteri di oncologia che regolano il trattamento dei tumori ossei che insorgono in altre sedi, vincendo le difficoltà tecniche della chirurgia vertebrale. Ogni tumore è diverso: le metastasi possono giovarsi di interventi meno aggressivi, combinati con radioterapia e chemioterapia, ma i tumori primitivi richiedono spesso scelte molto aggressive, adeguate all’aggressività della lesione. E’ una chirurgia lunga, difficile, rischiosa, gravata da molte complicazioni. L’aspetto più difficile non è l’intervento, è la sua preparazione, che deve essere meticolosa e spesso richiede giorni (e notti) per una pianificazione adeguata: bisogna cercare di non trascurare alcun dettaglio, perché è il primo intervento a condizionare la prognosi. Se il primo intervento è inadeguato, molto raramente il secondo potrà restituire al paziente una adeguata speranza di vita. Chi si assume la responsabilità di curare un tumore vertebrale deve capirlo: nella nostra casistica vi sono casi recidivati sei, sette volte dopo un primo intervento non sufficientemente aggressivo, magari eseguito senza avere una diagnosi definitiva, o presumendo la diagnosi sull’immagine radiografica. La biopsia è indispensabile. Altrettanto indispensabile lavorare in un gruppo multidisciplinare: il chirurgo non può fare a meno di radiologo, del radioterapista, dell’oncologo: particolare deve essere il rapporto con l’anestesista, con il quale deve svilupparsi un rapporto di collaborazione molto stretto, per affrontare serenamente interventi chirurgici molto complessi, esposti a problemi intraoperatori anche gravi.
Dal Rizzoli di Bologna al Galeazzi di Milano, dove ora lavoro, continuo a cercare di applicare questi concetti, continuando a confrontarmi con i chirurghi che nel mondo sono esperti di questi problemi. In questa prospettiva è di grande aiuto essere da anni nel comitato direttivo di un gruppo di studio internazionale scientificamente molto attivo in questo campo specifico (AOSpine Knowledge Forum). Mi piace continuare a trasmettere la mia esperienza e la mia passione per la ricerca del trattamento più efficace, quello adeguato all’aggressività e alla sede del singolo tumore e applicare, in un contesto anatomicamente e chirurgicamente difficile, i criteri oncologici. Il professor Campanacci era uno dei massimi esperti al mondo di tumori ossei. Ciò che lo distingueva fra i chirurghi era la sua competenza anatomopatologica. Ciò che lo distingueva fra gli anatomopatologi era la sua competenza chirurgica. In pochi anni, viaggiando per confrontarsi con i maggiori esperti mondiali, sviluppando tecniche chirurgiche sempre più specifiche e individualizzate, scrivendo moltissimi articoli su riviste internazionali e un libro di grandissimo valore, la sua fama divenne sempre più vasta, attirando pazienti e chirurghi desiderosi di imparare a curare lesioni così rare e complesse.
Negli anni ‘70 la chemioterapia si stava sviluppando, consentendo ai chirurghi interventi meno demolitivi sui tumori ossei degli arti, fino a pochi anni prima trattati solo con amputazioni. Verso la fine del decennio si sviluppò la cosiddetta limb salvage surgery, la chirurgia che preserva gli arti affetti da tumore osseo, grazie a resezioni e ricostruzione con risparmio della funzione rese possibili dall’effetto della chemioterapia. Solo i tumori ossei della colonna vertebrale continuavano a essere legati al triste destino di una pessima prognosi. Avevo poco più di trenta anni, la mia tesi di laurea, uno studio sull’ Emangioendotelioma, un raro tumore osseo vascolare, era stata pubblicata su Cancer, ma la mia attività di ricerca languiva poiché i progetti sui tumori degli arti e del bacino erano già appannaggio dei miei colleghi più anziani. Mi dedicavo quindi per lo più a studiare le fratture, appassionandomi alla discussione fra l’osteosintesi rigida e l’osteosintesi dinamica con l’inchiodamento endomidollare bloccato, per cercare di ottenere riprese funzionali immediate e guarigioni rapide.La mia vita, non solo professionale, cambiò il giorno del 1982 nel quale il prof.Campanacci mi chiamò nel suo studio, mi fece sedere sulla poltrona di fronte alla sua scrivania e mi disse: perché non ti occupi di tumori vertebrali? Studiando i comportamenti delle singole lesioni e sviluppando tecniche di resezione potremmo ottenere risultati analoghi a quelli che stiamo ottenendo nei tumori degli arti: meno amputazioni, sopravvivenze più lunghe. I tumori della colonna vertebrale a quei tempi venivano trattati con radioterapia o con interventi di curettage, parziali, per lo più inefficaci a impedire paralisi, fratture invalidanti, pessima qualità di vita. La sede anatomica, in prossimità di strutture vitali (neurologiche, vascolari, viscerali) sembrava rappresentare un limite invalicabile
La diagnosi è indispensabile, ma non sufficiente (stadiazione di Enneking). Il grande apporto di W.F.Enneking all’Oncologia fu il concetto della diversa aggressività biologica non solo da tumore a tumore ma anche riguardo allo stesso tumore in momenti diversi del proprio sviluppo. Da questa considerazione nasce l’idea della stadiazione, la suddivisione dei tumori in stadi in modo da pianificare il trattamento in rapporto al diverso livello di aggressività biologica. I successi della chirurgia dei tumori ossei degli arti erano legati non solo alla chemioterapia, ma anche alla pianificazione della chirurgia in accordo con la stadiazione di Enneking. Ci dedicammo allora ad applicare sistematicamente la stadiazione di Enneking ai tumori della colonna vertebrale, in uno studio prospettico di correlazione con trattamenti oncologicamente etichettati: intralesionale, marginale, ampio.
Applicare la stadiazione WBB. Il secondo passo fu di apprendere le tecniche di chirurgia vertebrale: alcuni mesi a Marsiglia da Renè Louis, molti viaggi a Parigi da Roy Camille, diventando amico del suo aiuto Christian Mazel. Per sei mesi cambiai reparto al Rizzoli, lavorando con il Prof.Savini, primario del reparto di Chirurgia Vertebrale che si occupava soprattutto di deformità ma mi consentiva di apprendere le vie d’accesso e le tecniche ricostruttive. Fu così che in un giorno di ottobre del 1991, aiutato da Roberto Biagini, operammo la prima resezione in blocco su un Cordoma di L3. Da allora la passione divenne sempre più intensa, collaborando con Weinstein, già allora famoso chirurgo vertebrale nordamericano, sviluppammo un sistema di stadiazione che consente di ragionare sulle caratteristiche del singolo tumore. Oggi questo sistema, chiamato WBB dalle iniziali dei nostri cognomi, è usato in tutto il mondo: andare in Cina e vedere centinaia di casi catalogati con il nostro sistema è una grande soddisfazione. Altrettanta soddisfazione ci è giunta dal sistema di ricostruzione modulare in carbonio, efficace per una stabilità immediata e per una fusione a lungo termine. Un sistema modulare, che si adatta ad ogni situazione e che consente di ricostruire una colonna vertebrale valida e forte nonostante la resezione anche di diverse vertebre. Ma le soddisfazione maggiore è la vita dei pazienti: per esempio trovarsi pochi anni fa in Australia e incontrare un paziente operato nel 1994 per un sarcoma di Ewing (il tumore osseo a prognosi peggiore), in ottime condizioni dopo venti anni dalla resezione e dalla ricostruzione, padre di una bella bambina, dedito a sport intensi e famoso ristoratore.
Ma i casi singoli tuttavia non stabiliscono regole. I protocolli si basano sull’analisi critica retrospettiva e soprattutto su studi prospettici. Abbiamo curato moltissimi pazienti in tutti questi anni ottenendo una delle casistiche più vaste al mondo fra quelle di un singolo team operatorio. Dall’analisi del rapporto fra diagnosi, stadio del tumore e trattamento emerge chiaramente che la stadiazione di Enneking è valida, cioè è in grado di definire correttamente l’aggressività del tumore e di proporre il trattamento efficace.
E questa conclusione è stata poi ottenuta in numerosi studi internazionali.
Nel contempo per molti tumori (soprattutto per il cordoma) trattare con successo le recidive è quasi impossibile, quindi il massimo dello sforzo deve essere fatto sul primo trattamento.
Il nostro quotidiano impegno nel trattamento del Cordoma ci è riconosciuto a livello internazionale.

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